Sabato scorso, il direttore dell’Inchiesta, Stefano Di Scanno, ha pubblicato un editoriale sulla mancanza di “trasparenza” delle istituzioni e degli enti pubblici della nostra provincia. Un tema importante da affrontare cercando di capirne le ragioni, che stanno – secondo me – non solo nella fragile formazione politica e istituzionale dei singoli ma anche in una cultura del maggioritario male appresa e male applicata. Cosa succede alla Saf, all’Asi, nel nostro comune. L’articolo è stato pubblicato oggi sull’Inchiesta.
Caro direttore, nel tuo editoriale di sabato scorso hai posto un tema, secondo me, essenziale della nostra vita politica e del rapporto tra istituzioni e cittadini. Quello della “luce” che deve illuminare “il campo da gioco di enti e politica” e che, al contrario, oggi più di ieri è sottratto alla visibilità dei cittadini e perciò al controllo che essi hanno diritto di esercitare sulle scelte compiute da chi li rappresenta. Un controllo attento, costante, che deve attuarsi – concordo con te – non solo nelle istituzioni, nelle assemblee di ogni livello istituzionale e territoriale, ma anche negli enti che, pur formalmente autonomi, ne sono strumento operativo per realizzare finalità di carattere pubblico.
Ho seguito la vicenda, raccontata puntualmente dal tuo giornale, della controversia tra il sindaco Donfrancesco e il presidente della Saf Vicano sulle nomine effettuate da questa azienda per via diretta, derogando dall’obbligo del concorso, secondo una modalità contestata dal sindaco e di cui, invece, l’altro rivendica la piena legittimità. A me è capitato di chiedere al sindaco di Alatri di spiegare al consiglio comunale della città, chiamando direttamente a riferirne il nostro rappresentante nell’assemblea dell’Asi, su quali siano stati fino a oggi gli atti compiuti, sostenuti, proposti in quella sede a tutela del comune e degli interessi dei suoi cittadini. Anche in quell’ente, infatti, (che vede la presenza, come soci, di molti comuni della provincia, e perciò non può certo sottrarsi a doveri impegnativi di rendicontazione del proprio operato, rendendo esplicite le ragioni delle scelte adottate) si assume, si scelgono collaboratori tra i prossimi, almeno per appartenenza politica, in nome di una male intesa “autonomia imprenditoriale” senza che nessuno se ne mostri sorpreso e, come dovrebbe, indignato.
In un passaggio del tuo articolo, ti soffermi per qualche rigo sulla vicenda alatrese del conferimento, da parte del sindaco, di una delega operativa al presidente del consiglio comunale, chiedendoti che provincia sia quella in cui è necessario rivolgersi al Tar, come le minoranze consiliari della città sono state costrette a fare, per ristabilire la decenza istituzionale, ancora una volta offesa con l’arrogante rivendicazione del potere di disporre come meglio conviene e non come è giusto, legittimo e opportuno.
Ancora ad Alatri succede che il segretario comunale venga rimosso e, anche in questo caso, a chi ne chiede ragione il sindaco oppone una sorta di diritto sancito dalla legge di esercitare la propria discrezionalità (che è consentita) senza rendere nota, e con la formalità dovuta, la motivazione (omissione che non è consentita).
Accadono, insomma, troppi fatti di questa natura, vengono prese troppe decisioni all’interno di un campo che invece di essere illuminato viene tenuto accuratamente nell’oscurità per supporre che si tratti solo di un problema dei singoli e della loro incerta formazione politica e istituzionale. La mia convinzione, non da oggi, è che la riduzione di sensibilità verso i delicati meccanismi istituzionali e la sfera delle loro competenze sia il frutto della crisi non risolta della politica dei primi anni novanta del secolo scorso e dell’affermarsi della cultura del maggioritario senza contrappesi, che sembra essere il terreno entro cui si riconosce, intrecciando le proprie convenienze e il suo stesso codice di sopravvivenza, una classe politica che non si pone limiti (anche nel rigenerarsi senza complessi nel management di aziende ed enti pubblici), non accetta limiti e, superando le faticose procedure della mediazione (o della semplice informazione), si appella costantemente e demagogicamente all’investitura diretta del popolo o, peggio, di leggi, interpretate e usate spesso con una rozzezza da lasciare sconcertati.
I danni sono evidenti e non riguardano solo le forme. Qualche anno fa l’economista Alberto Alesina studiò il rapporto tra qualità delle politiche sociali di diversi paesi e i loro modelli istituzionali e elettorali. E dimostrò che là dove si erano affermati i sistemi maggioritari, lo stato sociale era diventato meno generoso, meno orientato alla spesa (per Alesina era un bene) per motivi tanto evidenti da non doverli ripetere.
Lo dico non per il gusto di citare una ricerca che non è mai entrata per il verso giusto nel nostro discorso pubblico, ma per confutare una scontata contestazione, che sono certo investirà anche te ogni volta che i tuoi articoli pongono il problema, secondo cui affrontando queste tematiche e rivendicando queste distinzioni non si conquistano né elettori né lettori. È vero, spesso si tratta di battaglie disperate, di prediche “inutili”. Ma, alla fine, se la qualità delle nostre istituzioni, centrali e locali (sempre più “senza voto” e sempre più campo di cooptati) degrada, rinuncia ai provvidenziali “sofismi” della democrazia, le conseguenze non resteranno confinate nella sfera delle astrazioni o delle “astruserie”, come si sente ripetere con insopportabile frequenza. Precipiteranno pesantemente dentro il campo della vita delle persone, le condizioneranno, le renderanno più precarie, frantumeranno i loro diritti. Per questo bisogna insistere. Ma so già che con te non c’è bisogno di inviti ad insistere perché con il tuo giornale “insisti” (resistendo) da sempre.