La provocazione di Francesco

Un post di discorsoincomune.com pone questioni serie. Che meritano di non essere lasciate solo al coraggioso anticonformismo del giovane che le ha proposte. Perché ci interrogano sul giusto rapporto tra i cittadini e chi li rappresenta.

@TarcisioTarquini

Penso che non si debbano lasciar cadere le “provocazioni” che Francesco Boezi (mi aveva avvertito della crudezza delle sue osservazioni) ha affidato al nostro blog. Meritano una discussione, un approfondimento, una risposta perché propongono al discorso cittadino (quello che vorremmo fosse un vero discorso in comune) il tema del giusto e virtuoso rapporto tra cittadini e loro rappresentanti e, quindi in qualche misura, tra politica e società, un nodo intricato che sarebbe ingeneroso e miope pretendere che sia sciolto solo dal coraggioso anticonformismo di un giovane.

Il post ha avuto una certa diffusione, è stato letto (possiamo ricavarlo dai dati delle visualizzazioni), ha suscitato interesse e contrasti. In un colloquio, via face book ma privato, una giovane, intraprendente e inventiva musicista che vive ad Alatri ma che ho conosciuto e apprezzato negli anni della mia presidenza del Conservatorio, mi ha confidato la sua diffidenza nei confronti delle argomentazioni di Francesco, per la genericità delle accuse rivolte all’amministrazione dal momento che – spiega la giovane, di cui naturalmente ometto il nome per la natura privata della nostra conversazione – “credo che una critica equilibrata e obiettiva debba far riferimento a dei fatti”, altrimenti pecca di genericità.

È una considerazione che condivido, ma che (come ho risposto alla mia giovane amica) trascura un punto, e fino a travisarlo. E cioè che il vero obiettivo polemico di Francesco non sono l’amministrazione comunale o i “politici” – che risultano semmai il bersaglio secondario delle sue contestazioni – ma siamo proprio noi, i cittadini, la cosiddetta società civile, sotto accusa è il livello delle domande che rivolgiamo a chi governa la cosa pubblica e che, per il loro particolarismo, inducono risposte di corto respiro, tutte schiacciate sull’ansia del momento, dell’orizzonte limitato, del fiato corto.

Non a caso, Francesco ricorre – da giovane colto quale è – a una nozione celebre nella storia della sociologia, quella di “familismo amorale”, coniata da Edward C. Banfield nella sua indagine di fine anni cinquanta del secolo scorso sui comportamenti di una comunità lucana, e diffusa in tutto il mondo da un libro il cui  titolo era già tutta la tesi, “Le basi morali di una società arretrata”.

Il “familismo amorale” era, per il sociologo americano, il nome della paralisi civica che impediva lo sviluppo di quella comunità, un vizio che si manifestava nel mettere al centro di ogni scelta l’interesse proprio e della propria più ristretta cerchia familiare, accontentandosi di conseguire un vantaggio immediato, vicino e limitato, spesso a discapito di un vantaggio più generoso per tutti.

Molti altri studiosi, successivamente a Banfield, hanno analizzato la questione del ruolo del capitale sociale (che è tanto più alto quanto più risulti affidato non alla ristrettezza dei gruppi ma all’ampiezza delle reti) e ne hanno dimostrato l’importanza nel determinare le fortune di una società e l’andamento stesso della storia. Robert Putnam ha persino trovato lì (nel diverso grado di civicness) la radice del passo diverso tra sud e nord del nostro paese.

Insomma la provocazione di Francesco è tutt’altro che ingenua e non toglie valore, al contrario le rafforza, a tutte le altre osservazioni che mi ha espresso la giovane musicista: la sua gratitudine al paese che l’ha fatta nascere e crescere libera, alla famiglia che l’ha spronata a incontrare gli altri, qui da noi e all’estero (le parole che riserva al padre sono belle, e mi piacerebbe fossero le stesse dei miei figli nei miei confronti). Tanto più che lei stessa, in conclusione, pone una domanda non diversa da quelle poste da Francesco: “Sono d’accordo – ammette – sul fatto che si debba andare a votare per valori ben più alti del rattoppo di una buca o del montaggio di un lampione. La domanda che mi pongo io è: “ma quanto può essere difficile fare politica, con un materiale umano poco predisposto all’azione?”

È una domanda che ci poniamo tutti e a cui il nostro Movimento “Alatri in Comune”  vuole provare a dare una risposta. Non offrendo, però, una comoda “scappatoia” alla politica, ma richiamandola alla propria responsabilità, che è quella di ritrovare nel rapporto con la società e i cittadini la fonte della sua legittimità. Non si deve far altro che tornare ai fondamenti. Anni fa, quando venni eletto per la prima volta consigliere comunale (lo sono stato per tredici anni, dal 1980 al 1993), il mio capogruppo, Paride Quadrozzi, mi disse che da quel momento io (come lui e come gli altri consiglieri) dovevo sentirmi rappresentante di “tutti i cittadini”, non solo di quelli che mi avevano dato il voto ed eletto, né tanto meno della parte che mi aveva proposto. C’è scritto nella costituzione formale e morale della nostra democrazia. E vuol significare che chi esercita un mandato elettivo deve perseguire l’interesse della città nella sua totalità, deve superare il particolarismo, deve liberarsi di quello che Francesco (anche qui non banalmente) definisce “il circoscrizionismo senza circoscrizioni” (cioè, senza cornici istituzionali a nobilitarlo), deve guardare più in là del proprio naso o dei propri piedi.

Non si tratta di lampioni da installare o di rattoppi, più o meno necessari, da effettuare. È evidente che anche questo si deve fare.  Il discorso va al di là, è molto più serio e scava nel modo in cui guardiamo la politica. Ci spinge a una radicalità di giudizio su come si amministra, ad Alatri e altrove, con l’occhio rivolto a carezzare il (supposto) pelo delle persone. Senza accorgerci che poi i cittadini ricambiano con la stessa moneta, e nel momento in cui votano per un lampione in più certificano anche, nella maniera più esemplare e clamorosa, il livello basso di considerazione nel quale tengono coloro che li amministrano a suon di lampioni, affermano solennemente il disprezzo che riversano sulla politica e i politici, decretano in modo lampante la sostanziale inutilità della loro azione.

Ognuno, poi, cerca di salvarsi da sé, di trovare da solo opportunità di futuro per i figli o di miglioramento delle proprie condizioni. Con l’inevitabile conseguenza che chi può di più, ha maggiori mezzi economici o culturali (spesso coincidono), è anche quello che meglio riesce, e chi sta dietro ed è più povero viene risospinto sempre più in basso. Noi vogliamo spezzare questo cerchio vizioso. E vogliamo farlo, stavolta e tutti insieme.

Per ridare fiducia a Francesco. E per dare nuove ragioni all’ottimismo della mia giovane amica musicista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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