@discorsoincomune
Può capitare di incontrare, per caso, un quarantenne che ti racconta la sua storia, solo per raccontarla e metterti a parte di una sua delusione. Ci è accaduto stasera (12 novembre) e vogliamo segnalarlo in questo post (il nostro è un diario collettivo pubblico) perché la storia, accaduta ad Alatri, riguarda tutti e, soprattutto, se finora ha avuto una conclusione sbagliata non è detto che debba sempre finire così.
Questo quarantenne, dunque, ci ha confidato di avere avuto qualche anno fa l’idea di realizzare coltivazioni biologiche a chilometro zero. Chilometro zero, come si sa, è una locuzione che, applicata all’agricoltura, vuole dire che i prodotti si debbono vendere il meno lontano possibile da dove si coltivano. Con la finalità di assicurare ai consumatori prodotti freschi e genuini, aiutare i produttori e le economie agricole locali a ricavare un reddito dignitoso per il loro lavoro e, saltando gli stress della filiera della distribuzione, assicurare un beneficio a chi compra, mantenendo i prezzi a livelli contenuti. Si chiama anche “sovranità alimentare” e, di recente, ha ispirato la presentazione di una legge per l’agricoltura contadina (in contrasto con quella industriale) che, però, come altre leggi presentate per tutelare le “piccole dimensioni” (pensiamo al provvedimento per i piccoli comuni), è da temere che finirà per incagliarsi in qualche tortuoso percorso parlamentare, finché non se ne parlerà più.
Il nostro quarantenne è uno che ha voglia di lavorare. Con altri due amici si è organizzato, perciò, per coltivare ottomila metri di terreno abbandonato o quasi della campagna di Alatri. Si è guardato intorno, ha chiesto se ci fossero aiuti per facilitare l’avvio della piccola impresa, si è recato sul palazzo comunale dove ha bussato a diversi uffici e assessorati, gli è stato detto che si sarebbe trovato qualcosa, un piccolo finanziamento magari da qualche fondo europeo, alla fine ha deciso di cominciare senza aiuti visto che risposte e informazioni – per non parlare dei finanziamenti – tardavano ad arrivare. È andato avanti per un po’ di mesi fino a oggi, quando ha deciso di arrendersi. È troppo poca la terra a disposizione, sono troppo alte le spese, è troppo risicato il ricavo.
Ad Alatri, come da per tutto, ci sono ettari di terra abbandonati, alcuni sono utilizzati da chi ci mette per primo le mani sopra senza regole e concessioni di sorta, ci sono anche terreni di proprietà ecclesiastica incolti: solo con una parte di questi l’impresa del nostro quarantenne avrebbe raggiunto le dimensioni minime per dare reddito sufficiente a lui e a qualche altro bene intenzionato come lui. Non molto tempo fa, di questo tipo di agricoltura che recupera le produzioni naturali e ne fa commercio locale, abbiamo visto un esempio ben riuscito nella Val di Cornia. La vice sindaco di Suvereto, una ragazza di appena trenta anni, ci ha illustrato, in una serata della scorsa estate, le efficaci iniziative prese dalla sua amministrazione per aiutare agricoltura e commercio locale.
Qui da noi, ad Alatri, nella storia raccontataci dal quarantenne, è mancato chi prendesse a cuore il problema, chi provasse a elaborare un progetto complessivo di riutilizzazione delle terre incolte e ne affidasse la gestione a quelli che hanno voglia di provarci. È mancato il comune, sono mancati i suoi uffici, i suoi assessorati, probabilmente (ce lo auguriamo) nemmeno per cattiva volontà. Ma solo perché (e alla fine è forse più grave) la visione di un ente che produce ricchezza per i suoi cittadini, dando servizi, informazioni, aiutandoli a muoversi nella selva intricata delle norme e dei finanziamenti regionali e europei, mettendosi a loro fianco per studiare insieme piani di impresa fattibili, è estranea alla cultura di chi amministra la città, stride con un modello antico di macchina comunale, che è diventato comodo come un’abitudine e perciò non è messo in discussione da nessuno.
Anche se nessuno, alla fine, può sentirsene soddisfatto.