Diamoci da fare, ragazzi. O andiamo via prima che sia troppo tardi

Mi sono interrogato spesso sul senso del continuare ad abitare in un paese che è per lo più un dormitorio, in una città che ha fatto della delinquenza abituale una cifra stilistica e che da almeno vent’anni offre poche alternative alla depressione, all’alcolismo, alla tossicomania ai ragazzi che godono di poche risorse caratteriali e/o culturali (io, ad esempio, da ragazzetto passavo il mio tempo ad Alatri dedicandomi alla depressione di giorno e all’alcolismo di notte). 

@AntonioColetta

Quando Emanuele Morganti venne ucciso ad Alatri, in un marzo di tre anni fa, partecipai a una fiaccolata silenziosa assieme a un altro migliaio di persone per protestare contro quell’atto violento – ma, più in generale, contro quella società e quel disagio che lo avevano generato

Con spirito romantico, ritenni fosse importante che vi prendesse parte anche mia figlia di un anno e mezzo, che compisse un atto politico (anche se addormentata, e trasportata con passeggino), perché la questione – il futuro della città nella quale abitava e probabilmente avrebbe abitato successivamente – riguardava la sua vita forse più di quanto non investisse la mia. 

Negli ultimi anni, mentre si susseguivano inaspettati fatti di cronaca nera e drammi della solitudine, e mentre i più anziani favoleggiano e rimpiangevavano nei loro discorsi l’Alatri meravigliosa di un tempo della quale credo di aver conosciuto solo la fase di declino, mi sono interrogato spesso sul senso del continuare ad abitare in un paese che è per lo più un dormitorio, in una città che ha fatto della delinquenza abituale una cifra stilistica e che da almeno vent’anni offre poche alternative alla depressione, all’alcolismo, alla tossicomania ai ragazzi che godono di poche risorse caratteriali e/o culturali (io, ad esempio, da ragazzetto passavo il mio tempo ad Alatri dedicandomi alla depressione di giorno e all’alcolismo di notte). 

Non sono un proibizionista né immagino possibile un mondo senza devianze, tuttavia credo che se riuscissimo a fornire ai nostri ragazzi una vita piena di interessi potremmo ridurre il numero di dipendenze e limitare per molti l’utilizzo di alcol e droghe al puro uso ludico.

Certo – commenterete -, la vita ad Alatri non è differente da quella vissuta nella stragrande maggioranza dei paesi di provincia in Italia, ma perché non potrebbe essere migliore? 

Ci troviamo di fronte a tre alternative, tutte egualmente ragionevoli: accettare passivamente il declino e l’oscurità; trasferirci; adoperarci per migliorare la qualità della vita di chi abita questo paese – dove adoperarci per migliorare la qualità della vita di chi abita ad Alatri vuol dire contribuire al disegno di un modello di sviluppo sociale, culturale ed economico adeguato al mutare dei tempi, delle esigenze e delle conoscenze, all’evoluzione urbanistica del territorio e a quella tecnologica di tutto il mondo occidentale. 

Chi governerà Alatri nei prossimi anni, per arginare un declino inarrestabile, dovrà dare risposte politiche prima ancora che amministrative, dovrà scartare di lato e non limitarsi a una gestione delle risorse e del territorio da paesino di montagna come quella che ha caratterizzato nell’ultimo secolo il nostro paese – cito a mo’ di esempio, i “ti mando l’operaio a riparare la buca” e “ci penso io a metterti il lampione sotto casa” dei quali dovrebbe occuparsi in autonomia l’ufficio tecnico, oppure il “vuoi il patrocinio alla tua mostra di cannucce? certo!” e il sostegno a tante manifestazioni che si ripetono stanche e uguali da mezzo secolo, non generano curiosità né interesse, non contribuiscono alla crescita economica né a quella turistica. 

Nulla di tutto ciò è stato fatto in malafede, ma corrisponde a una politica inadeguata a una Città – quale Alatri è diventata da quando, negli anni ottanta, le campagne hanno smesso di essere tali e sono divenute periferie. 

Credo che, prima di fare qualsiasi nuovo passo, occorra ridefinire il concetto di comunità sulla base dell’ormai poco recente nuovo assetto urbanistico della città e non trascurando il portato dell’evoluzione tecnologica, con molti giovani e miei coetanei che partecipano a comunità definite principalmente dagli interessi e poco dall’appartenenza territoriale. 

Mi fa rabbrividire il sentir parlare, ancora nel nostro secolo, di “comunità di Tecchiena”, “collettività della Fiura”, “gente di Collelavena” – sentimenti talmente radicati che, ai tempi dell’omicidio Morganti, Tecchiena fu indicata nella cronache nazionali come paese a sé stante. 

Queste divisioni disegnano un mondo piccolo piccolo e generano interessi (apparentemente) contrapposti che limitano la crescita economica e sociale della città: è interesse di un centro storico vitale che le periferie siano decorose e servite; è interesse di chi vive nelle periferie e desidera un’alta qualità della vita che il centro storico sia attraente ed economicamente florido. 

Non credo che nessuno con un po’ di senno avrebbe nulla in contrario se, per avere una comunità più coesa e mettere fine a un campanilismo ridicolo, il comune cambiasse la propria denominazione in “Comune di Tecchiena e Alatri” o “Comune di Tecchiena, Alatri e Fiura” o “Comune di Tecchiena, Alatri, Fiura e Monte San Marino” e così via fino a comprendere tutte le oltre 50 contrade e far contenti tutti i fan del piccolo mondo antico. 

E tuttavia, una volta ridefinita la comunità, occorrerà ascoltare i più giovani, perché il rilancio di un paese non può che passare attraverso le loro scelte: siamo davvero convinti che i nostri ragazzi possano innamorarsi del loro territorio attraverso la tradizionale fiera delle cipolle, la rievocazione storica del venerdì santo, il festival del jazz e quello del folklore? (appuntamenti che hanno tutti, naturalmente, la loro motivazione e importanza).

Per farli innamorare del loro territorio, delle sue tradizioni e aprirli a cose più alte, credo che occorra prima di tutto dare spazio al loro mondo: perché una fiera delle cipolle e non una dei videogiochi? Perché un festival del jazz e non uno della musica trap? Perché il concerto in piazza del pensionato locale e non un festival delle band di zona? Perché la presentazione del libro di Antonio Coletta e non quello della star di X Factor? Una cosa non esclude l’altra, certo, ma chi si occuperà della nuova agenda culturale di Alatri dovrà inevitabilmente domandarsi cosa interessa davvero i nostri giovani oltre ai convegni sulle mura ciclopiche e alle conferenze degli studiosi autoctoni. 

Il ventunesimo secolo ci impone di rompere con l’autoreferenzialità culturale della provincia italiana per fermare il moto autodistruttivo che sta trasformando i nostri paesi in tante piccole città di frontiera abbandonate a loro stesse. 

Credo che questi tempi impongano anche, a chi amministrerà Alatri, di farsi promotore di un’unione tra i comuni di zona, per mettere insieme le risorse e i punti di forza di ognuno e a punto un modello di sviluppo culturale, turistico ed economico comune e a lungo termine, che porti nel tempo nuove occasioni e nuova vitalità a chi vive la provincia e che tolga forza al ricatto occupazionale delle tante industrie che dalla metà del secolo scorso hanno inquinato il nostro territorio.

Diamoci da fare, ragazzi. O andiamo via, prima che sia troppo tardi. 

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