Un principio giusto utilizzato in modo improprio, probabilmente illegittimo da un punto di vista amministrativo e certamente più dispendioso di quanto sarebbe necessario. Una modalità di affidamento del servizio di assistenza domiciliare da modificare per conseguire economie che evitino altri tagli alla spesa sociale. La ricerca del consenso “prêt-à-porter”.
Cominciano a trapelare le prime indiscrezioni sui tagli che l’amministrazione apporterebbe ai servizi a domanda individuale e ai servizi sociali comunali per restare dentro ai vincoli del “piano di riequilibrio finanziario”. Si parla di un taglio agli asili nido e ai servizi cimiteriali e di una conferma del servizio del Centro Diurno. Vedremo meglio quando la maggioranza, che inutilmente (almeno finora) abbiamo chiamato a condividere con l’intero Consiglio comunale l’approvazione di linee guida per la salvaguardia del welfare locale, renderà note le sue risoluzioni. Intanto, però, qualcosa si può dire. E riguarda una modalità di gestione dei servizi di assistenza domiciliare adottata dal comune e che, a mio parere, oltre ad essere assai discutibile (se non di più) dal punto di vista della legittimità amministrativa è sicuramente più dispendiosa di quanto sarebbe necessario, specialmente nelle condizioni di oggi, e se modificata procurerebbe economie nella spesa regionale e nel cofinanziamento comunale senza intaccare o ridurre la prestazione sociale.
Il punto è questo. Il comune affida il servizio di assistenza domiciliare senza effettuare gare, ricorrendo a una, come dicevo a mio avviso discutibilissima, procedura detta dell’accreditamento. Per capire bisogna fare un po’ di attenzione e non perdersi nel labirinto di una legislazione e di prassi, affermatesi per consuetudine, che per indeterminatezza permettono il ricorso a una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio.
L’accreditamento è un sano principio introdotto dalla riforma dell’assistenza del novembre duemila (articolo 8 della legge 328) che, nell’ambito del sistema integrato dei servizi sociali, abilita i soggetti (pubblici e privati) titolati a svolgere alcune prestazioni sociali nell’ambito di tale sistema. Le Regioni, con proprie norme, avrebbero dovuto definire i criteri dell’accreditamento, mettendo a disposizione degli enti, ma soprattutto dei cittadini nello stato di bisogno, la possibilità di scegliere tra diverse “offerte”, garantendo così l’esercizio della libera scelta secondo le necessità e le preferenze di ciascuno. Il principio è giusto, l’attuazione è da per tutto – e soprattutto nel Lazio – assai problematica, non solo perché questa legge regionale sull’accreditamento nella nostra regione non è stata fatta e si va avanti con provvedimenti tampone (avete un’idea di cosa significhi, dal punto di vista degli interessi economici, accreditare o non accreditare un soggetto?), ma anche perché è davvero assai complicato garantire una scelta consapevole, razionale, a persone che si trovano in uno stato di “asimmetria informativa”, non essendo quasi mai chi si trova in condizione di particolare fragilità e dipendenza in grado di capire esattamente cosa gli sia più giovevole e il tipo di servizio, tra quelli offerti, più adatto.
Insomma un tema che tocca tanti aspetti delicati, sui quali, non a caso, c’è una ricchissima letteratura, tutt’altro che conclusiva.
Ad Alatri e nel nostro distretto sociale (ma anche altrove) questo giusto principio ha trovato quella che io credo sia una singolare e spericolata attuazione. L’intero servizio di assistenza domiciliare (che è una delle voci di spesa più rilevanti, ma – chiariamolo – più necessarie del bilancio comunale) viene frantumato in importi che restano tutti sotto la soglia minima oltre la quale sarebbe obbligatorio procedere alla gara di appalto (40 mila euro), il servizio perciò viene distribuito tra diversi soggetti “accreditati” (iscritti a un albo distrettuale), con la flebile motivazione che in questo modo verrebbe assicurata, attraverso la moltiplicazione dell’offerta, la libera scelta dell’assistito e il conseguente rispetto della personalizzazione dell’assistenza secondo le necessità di chi la riceve. In realtà, si tratta di una finzione. La scelta non viene compiuta – e sarebbe difficile che così fosse – dal singolo assistito o dalla sua famiglia, ma viene effettuata dall’assistente sociale che guida verso un soggetto erogatore del servizio piuttosto che un altro (una cooperativa) sulla base di sue valutazioni sulla tipologia di bisogno e della risposta conseguente che stima utile assicurare.
Veniamo al dunque. Le cooperative che qui da noi hanno in affidamento il servizio hanno più o meno tutte analoghe caratteristiche e forniscono prestazioni simili e perciò la moltiplicazione dell’offerta non ha ragion d’essere, sotto questo profilo. L’unico effetto pratico che essa ha è quello di evitare la gara d’appalto e aprire la strada ad affidamenti fiduciari che non hanno nulla a che vedere con l’esercizio della libertà di scelta dell’assistito ma più probabilmente si prestano ad essere il veicolo di rapporti di dipendenza con l’ente “non-appaltante” e con chi lo governa politicamente. Ricorrere a una regolare procedura di gara (secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa) non metterebbe in discussione alcun principio né determinerebbe alcuna penalizzazione per l’assistito, ma servirebbe ad ottenere le prestazioni migliori al prezzo più conveniente e spingerebbe i partecipanti a migliorare quantità e qualità dell’offerta di assistenza. Perché non si fa? Perché finora non si è fatto? Nel PEG del nostro comune (piano esecutivo di gestione) al servizio di assistenza domiciliare risultano attribuiti 583.000 euro di finanziamento regionale (vale per il distretto) a cui si aggiungono 68.000 euro di contributo comunale. Attuare una gara comporterebbe, oltre all’utilizzo di una procedura trasparente (fatto di non poco conto), sicure economie che libererebbero risorse (comunali e regionali) per altri servizi, evitando qualche taglio, dei tanti oggi presentati come indispensabili. Ma che indispensabili non sarebbero, con criteri diversi di gestione di un settore – quello sociale – che è troppo importante perché sia lasciato nelle mani di politiche preoccupate solo di contabilizzare un consenso “prêt-à-porter”.