Dopo Eugenia Salvadori e Francesco Boezi, prosegue, con un intervento di Luca Fontana, il nostro dibattito sull’Europa dopo il referendum inglese. Il voto inglese è stato dato per ragioni sbagliate, ma ha messo in luce il problema vero di un’Unione che non ha più la lungimiranza dei padri fondatori. E nemmeno le emozioni che portarono alla sua nascita.
@LucaFontana
Se l’Europa nacque come progetto politico con al centro ideali quali la pace, l’unità e la prosperità, che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto svolgere un ruolo determinante nel superamento di secoli di guerre e rivalità, oggi ci troviamo in una realtà continentale in cui resta ben poco di quello spirito. E non dipende certamente dalla Brexit, semplice sintomo di una malattia ormai palese e manifesta, più volte diagnosticata ma costantemente e strategicamente ignorata. E non dipende nemmeno dalla memoria corta di coloro che sembrano aver rimosso l’infinita lungimiranza di quella visione. Non ci si dimentica di gente come Spinelli, De Gasperi, Adenauer. Non ci si dimentica del sangue versato insensatamente. Molto più banalmente, per opportunismo e per mere ragioni di interesse, si finge di non ricordare. A volte è meglio non sognare troppo.
La Brexit è solo l’ultimo segno di una crisi permanente. Paradossalmente, il fiero popolo inglese potrebbe aver preso la scelta giusta, viste le condizioni in cui versa l’Unione Europea, ma lo ha fatto per le ragioni sbagliate: quelle cui è più semplice ricondurre ogni male, quelle fondate su relazioni spurie, originate da pancia, emozioni e credenze storiche e culturali che, volenti o nolenti, sono quelle che più muovono l’animo di un popolo, costituendone i tratti caratteristici. Gli umori irrazionali, quel patriottismo all’inglese, immortale retaggio dell’Impero; la refrattarietà alla globalizzazione “umana” – ben venga, però, quella finanziaria nella City – la paura della “contaminazione” e dell’invasione; quel misto di sciovinismo da british humor, forse anacronistico, ma più volte decisivo quando si è trattato di delineare la posizione del Regno Unito nell’Unione Europea. Una posizione di confine de facto, geograficamente e politicamente, con un piede dentro e uno fuori e forte di uno status particolare costruito un po’ alla volta, fino a qualche mese fa, con trattative ad populum e ricatti a beneficio di un deroghismo britannico parecchio umiliante per gli altri paesi: tra l’altro il Regno unito si è tenuto fuori da Schengen e non ha approvato il fiscal compact. La Brexit, pertanto, da questo punto di vista, si potrebbe considerare un fattore positivo poiché, quantomeno, riduce la pretesa e l’aspirazione al deroghismo. Nelle cause della Brexit, di politico, a parte le ragioni interne e personali di Cameron, c’è ben poca cosa. Perché l’humus sui cui è proliferato il malcontento interno del popolo inglese, che mal digeriva le direttive, i regolamenti e le decisioni di Bruxelles, è proprio questo atteggiamento da prima donna, che confessava un’adesione straforzata all’Unione Europea.
L’OSSESSIONE DELLA MONETA E LA CRISI DELL’ECONOMIA
Tipico esempio di deroghismo britannico è l’anomalia della sterlina, sopravvissuta grazie a uno status di privilegio distinto dalle altre monete europee tuttora esistenti. Merito della voce grossa, forse. A quanto pare la disparità di trattamento tra i vari paesi dell’UE non sembra rappresentare un problema politico. Probabilmente gli inglesi hanno avuto ragione di quella scelta. L’euro appare ormai come una zavorra, una pena da espiare, comminata da quella Germania che, grazie alla moneta unica, ha spalancato a noi italiani, e non solo, le porte dei “negozi” tedeschi: da scomodi concorrenti a clienti benvenuti. Con Prodi ci siamo illusi che bastasse una moneta forte e tassi di interesse bassi a ribaltare un’economia tipicamente da paese satellite e a trasformarla in un’economia solida e robusta alla tedesca. Aggravati pesantemente dal debito pubblico, abbiamo pensato che avremmo ricavato benefici da una moneta forte e da tassi minimi; che l’economia avrebbe ripreso dinamismo e così gli investimenti, sciogliendo, altresì, il monumentale e celebre “risparmio italiano” così da mettere in circolo risorse fresche. Bene, tutto ciò non è successo, o al massimo è avvenuto solo in piccola parte. Certamente il petrolio e le materie prime costano meno ma un vero e proprio sviluppo non c’è stato. Al contrario, abbiamo perso uno strumento fondamentale nella regolazione degli equilibri economici che è la sovranità monetaria: la possibilità di modulare il valore della moneta. La Germania, d’altro canto, “regalando” una moneta forte ai paesi potenziali importatori, ha reso i propri prodotti più competitivi e ha ampliato la platea dei compratori. Esporta principalmente in Europa grazie all’euro e riserva una concorrenza spietata agli altri paesi dell’UE imponendo bassi tassi di inflazione, e quindi prezzi contenuti per ragioni di competitività. Noi che, perdendo la sovranità monetaria abbiamo dimezzato la nostra di competitività, trovandoci a vendere a prezzi più alti, ci siamo ritrovati a poter far leva solo sulla riduzione dei diritti (che hanno un costo), sulla precarizzazione scientifica e strategica e sui salari, la cui compressione ha aumentato a dismisura la povertà in tutta Europa: se vuoi rendere le tue merci più competitive sui mercati internazionali abbassandone il prezzo, e non puoi svalutare, allora le strade alternative sono quelle. Al loro costo sociale, tuttavia, nessuno sembra molto interessato. Più si abbassano i prezzi più aumentano tali costi perché contestualmente fioriscono sfruttamento, lavoro nero, illegalità, mancanza di diritti.
IL CHIODO FISSO TEDESCO
La stessa Germania, che cresceva anche sulle nostre spalle mentre noi eravamo in piena crisi, puntava sul contenimento dei salari, sebbene in crescita economica, proprio per non rischiare che un aumento dei prezzi, dovuto all’incremento delle retribuzioni, potesse pregiudicare il suo ruolo da leader dell’export europeo. Il chiodo fisso tedesco, quindi, rimane l’inflazione bassa, uno dei fondamenti dell’austerity. E Draghi che ha dichiarato guerra alla deflazione per stimolare la crescita, sta diventando il nemico numero uno di Berlino. Senza parlare delle politiche fiscali. Come si fa a creare una sana concorrenza interna se ogni paese mantiene una propria politica fiscale? Come può un’azienda italiana, che paga il 50% di tasse competere con aziende europee che in alcuni paesi ne pagano la metà? È ovvio, quindi, che non si possono mettere insieme economie di segno completamente opposto. È ovvio che senza un’unione politica reale e coesa che crei un legame vero e concreto tra i paesi, non può esserci un’Europa. Ed è ormai evidente che la sola moneta, come sostenuto da economisti e premi Nobel, non basta a unificare un continente in cui tuttora, e forse più di prima, persistono rivalità mai sopite e mai superate. La moneta unica, priva di un’unione politica, è destinata al collasso perché l’aggancio all’euro, presto o tardi, avrà dei costi sociali insostenibili tali da costringere i paesi in difficoltà all’uscita. A meno di un intervento drastico e immediato, l’abbandono dell’UE diventerà la strada obbligata e l’unica via di salvezza.
COSTI SOCIALI ENORMI IMPOSTI DA UNA BUROCRAZIA
Quella che vediamo oggi è un’Europa che ha negato le proprie origini, che ha disconosciuto il suo progetto fondante iniziato dopo la guerra con la costituzione, prima della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, poi della Comunità Economica Europea. L’Europa dell’austerity, invece, non ci pensa due volte a ridurre i margini di democrazia come mai dai tempi della guerra, concentrando il potere su organi burocratici e tecnocratici privi di legittimità democratica (la Trojka per esempio) e imponendo politiche economiche dai costi sociali enormi, senza assumersene la responsabilità elettorale, garanzia primaria per il cittadino. Per giunta la scarica su quei governi nazionali che non contano nulla, ormai semplici delegati a contrattare in sede europea a tutela di qualche interesse contingente o di qualche necessità del momento. Ce la prendiamo con il governo italiano, giustamente, ma dovremmo renderci conto di quanto esso sia ininfluente non solo in sede di politica estera, ma anche in politica interna. Le decisioni si prendono altrove e ricadono su noi cittadini, ormai privi, per giunta, della possibilità di sfiduciare con il voto chi prende decisioni per noi. E non si tratta del parlamento europeo, solo organo legittimato e spesso indaffarato in questioni a dir poco inutili, bensì dei governi che contano e che, assieme alla burocrazia dei tecnocrati, tengono in ostaggio un’Europa assurdamente debole perché priva di legittimità democratica.
Questa stessa Europa, peraltro, non teme di prelevare denaro pubblico, il nostro denaro, per saldare crediti di banche che selvaggiamente hanno elargito prestiti ad interessi più che convenienti, dunque ad alto rischio, inondando di liquidità e drogando paesi interi come la Grecia, un paese che mai avrebbe potuto ripagare il debito contratto. Nel momento in cui tali istituti, soprattutto tedeschi e francesi, ma anche italiani, vedevano svanire i propri crediti, interveniva il cittadino, con le proprie tasse, a rimborsare le “povere” banche. Tutto ciò è avvenuto mediante quello che comunemente si chiama Fondo Salva Stati: prelevare ai poveri per dare ai ricchi. Ed è chiaro che un’altra grave colpa dell’Europa sia un’attenzione quasi esclusiva all’economia di finanza (che polarizza i redditi) a discapito del lavoro (ridotto esclusivamente a modulatore di competitività), l’unico che genera ricchezza reale e che favorisce la redistribuzione. L’UE, ormai, è soprattutto questo. I trattati che tutti affermano di voler modificare rimangono andreottianamente tali, monoliti impossibili da scalfire. Gli unici motivi rimasti a garantire l’UE sono l’illusione, il sogno e la paura, soprattutto in Italia, paese tradizionalmente poco orgoglioso, molto autocritico e con scarsa fiducia in se stesso e per questo motivo tra i più europeisti.
L’ILLUSIONE DI UNA SVOLTA
Con infinito dispiacere cerco di essere razionale, di guardare la realtà per quella che è e piuttosto che temere un’exit all’italiana, comincio ad aver paura del contrario, cioè che tutto rimanga congelato in acque quiete ma vorticose. Non vedo unione in questa Europa e forse è il momento di trarne le conseguenze senza illudersi troppo nell’attesa di una svolta. Non si è mai conosciuta una crisi economica decennale, peraltro destinata a durare a tempo indeterminato. E non si può spiegarla con i tipici problemi di casa o con le riforme alla tedesca che mai abbiamo messo in cantiere e che puntualmente l’Europa, la Germania, ci chiede di realizzare. C’è un’Europa di 28, anzi di 27 paesi, in cui sostanzialmente è uno a decidere del destino di tutti. Ed è un sistema che raramente accetta compromessi e che dichiaratamente non vuole cambiare. È un’unione in cui prevale l’economia principale a discapito dei paesi più deboli e per questo nega se stessa perché assume come criterio, nonché come principio fondante, sebbene in forma politica, la logica del più forte, la stessa della guerra. Il sogno, la prosperità, la pace, lo spirito comunitario rimangono confinati all’emozione di un’epoca che dentro di sé piangeva ancora la sofferenza di un continente devastato dal conflitto mondiale. Si conserva lì quel sogno perché legato a quell’emozione. Oggi di quell’emozione politica, di quella visione così straordinariamente lungimirante, quasi impossibile da credere, finanche assurda se calata nel contesto continentale di quel momento, rimane ben poco. Quanto accade, oggi, con le dovute proporzioni, purtroppo, sembra un film già visto.
Il Regno Unito è fuori ma le ragioni potevano essere altre.