@discorsoincomune
Fa discutere la sentenza del Tar di Latina (udienza 8 ottobre) che ha dichiarato illegittima l’ordinanza con cui il sindaco di Alatri (ma anche i sindaci di altri comuni) ha ordinato il riallaccio delle utenze dell’acqua ad alcune famiglie morose. In essa si spiega che il sindaco non può adottare simili ordinanze, sulla base del comma 5 dell’articolo 50 del Tuel (Testo unico degli enti locali) poiché in questo caso si realizza “uno sviamento di potere, che vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale gestore-utente, impedire al medesimo gestore di azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in regola con il pagamento della prevista tariffa, e ciò a prescindere dall’imputabilità di siffatto inadempimento a ragioni di ordine sociale” .
Questo è quanto leggiamo dalle sintesi di stampa. Quello che capiamo è che l’ordinanza avrebbe invocato, a giustificazione della morosità, ragioni di ordine sociale, come, per esempio, l’impossibilità economica da parte dell’utente di pagare la tariffa. Questa è certo una motivazione esclusa dalla legge. L’articolo del Tuel richiamato fa riferimento, infatti, al solo “caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale” sulla base delle quali “le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale”. E se ne può comprendere la ragione. Per sostenere famiglie in difficoltà economica il comune può ricorrere ad altri strumenti di assistenza, le stesse associazioni degli utenti, del resto, si battono da tempo per l’istituzione di un fondo sociale (ricavato da una quota della stessa tariffa) per intervenire nelle situazioni di morosità “non colpevole”. E riconoscono così esse stesse che l’azienda erogatrice del servizio dell’acqua ha diritto di essere tutelata rispetto a inadempimenti contrattuali.
Quello che non convince, però, è il resto. Perché il sindaco non può (o meglio, tale potere non gli viene riconosciuto dal Tar) intervenire per tutelare famiglie in condizioni di indigenza obbligando l’Acea a ripristinare ad esse l’erogazione dell’acqua potabile in caso di morosità. Ma lo stesso sindaco può obbligare la medesima azienda al riallaccio dell’utenza interrotta se nell’ordinanza, attenendosi alla lettera della legge, dimostra che ci sono ragioni di tutela dell’igiene e della sanità pubblica a imporlo.
Le domande, a questo punto, sono tre. Cosa c’è scritto nell’ordinanza con cui il sindaco ha ordinato il riallaccio che il Tar ha negato? Il giudice del Tar ha contestato, nell’ordinanza, il richiamo all’articolo 50, comma 5, del Tuel perché utilizzato in difformità a quanto previsto dalla legge? E, se è così, quale sorte avrebbe avuto un’ordinanza correttamente motivata per ragioni di igiene e sanità pubblica, visto che su questo pare difficilmente contestabile la legittimità di intervento del sindaco che è la massima autorità, appunto, per tutto ciò che attiene a tali materie?
L’Acea oggi, con i suoi comunicati stampa, canta vittoria. E certo si può discutere se una vittoria in una guerra, che sembra scatenata contro cittadini in condizioni di bisogno, sia da vantare o meno. Ma un giudice può decretare la prevalenza, oltre qualsiasi limite, delle ragioni commerciali su ogni altra considerazione? Può stabilire, per mano di sentenza, che il bene al quale tutti gli altri debbono sottomettersi è quello dell’impresa, anche quando ciò ne neghi uno assolutamente primario, come il diritto all’acqua, che è come dire alla salute, all’igiene, persino alla sopravvivenza?
In questa vicenda c’è qualcosa di poco chiaro che va chiarito al più presto. E una volta chiarito, però, i sindaci dell’Ato 5 debbono interrogarsi se la ragione della scarsa chiarezza non si nasconda nello stesso contratto stipulato con l’Acea e che, quindi, sia su questo che si debbano rimettere, e al più presto, le mani.