L’Inchiesta mi ha chiesto un parere sulla delibera regionale che impone ad Alatri e Frosinone di dare vita ai Consorzi per la gestione dei servizi sociali distrettuali. E pone delle scadenze, che non sembrano tanto perentorie. Questa decisione arriva proprio nel momento in cui un progetto della Confindustria, condiviso con le amministrazioni locali, delinea i contorni del “sistema cooperativo di città del frusinate” (Unione di comuni per un nuovo capoluogo) che si muove in una prospettiva diversa. Parte da quì la mia riflessione, preoccupata che ogni soggetto (istituzioni e associazioni) giochi solitariamente la sua partita senza cercare confronti e definire un quadro di riferimento comune.
La prima domanda che mi pongo nel leggere la lunga nota sulla riorganizzazione dei servizi sociali inviata dalla Regione ai comuni della nostra provincia (che illustra, con qualche aggettivo di troppo, la delibera regionale 792) è in quale rapporto essa sia destinata a porsi con l’elaborazione, proposta da Confindustria ai nostri enti locali, su quella che è stata chiamata la “Grande Frosinone”. La circolare regionale, infatti, propone una soluzione istituzionale e un’aggregazione di comuni per la gestione dei servizi sociali integrati, che non offre alcuna sponda allo studio confindustriale, forte non solo di un’accurata indagine dell’Università romana di Tor Vergata ma anche dell’investitura politica (non si capisce bene, però, quanto convinta – almeno a sentire quel che i sindaci delle città interessate hanno dichiarato nella presentazione della ricerca di metà dicembre) dei primi cittadini coinvolti nel discorso. La nota regionale, infatti, scompagina in partenza lo schema disegnato dallo studio confindustriale, si muove nella logica non dell’aggregazione di funzioni intorno al sistema Frosinone (con Alatri posta al centro del sotto-sistema sociale) ma ritaglia ambiti territoriali diversi che di fatto lo svuotano di ogni contenuto.
Poco male, si potrebbe obiettare: in fondo quello lanciato dai nostri industriali (e su cui il vicepresidente nazionale di Confindustria – non l’ultimo provinciale posseduto da smanie da protagonista – Maurizio Stirpe ha voluto spendere tutta la sua indubbia autorevolezza officiando la riunione di lancio dell’iniziativa) può essere considerato come un “contributo al dibattito”. In realtà, però, il problema è molto più serio, perché denuncia ancora la persistenza del lavoro istituzionale a compartimenti stagni (oggi della Regione, ma di norma anche da parte dei comuni) e la preoccupante incapacità di un confronto sulle prospettive di sviluppo della nostra provincia, acquisendo stimoli, suggestioni, idee dalle grandi realtà associative che pure qualche sforzo di uscire da se stesse lo stanno facendo, si presume anche con l’investimento di risorse umane, materiali e finanziarie.
Un incontro sul progetto “Sistema cooperativo del Frusinate” si sarebbe dovuto tenere ieri, giovedì 24, ma è stato rinviato di un paio di settimane. Non so se c’entri anche questa nota della Regione, ma penso che il punto debba essere chiarito e in fretta.
Torniamo, però, a quello che la Regione comunica ai comuni, facendo anche un po’ di storia.
Si tratta di un atto che si iscrive in un lungo solco, che comincia ancora prima della promulgazione della legge nazionale di riforma dei servizi sociali, la 328/2000. In regione, oltre venti anni fa, l’assessore alle politiche sociali, Matteo Amati, di cui in tanti ancora oggi rimpiangono l’opera, aveva prefigurato la costituzione dei consorzi intercomunali – con la legge regionale 38/1996, di riordino di tutto il comparto. Tra parentesi, questa innovazione non nasceva dal nulla, perché in Piemonte, in Lombardia, in Emilia, già da anni i consorzi intercomunali erano la forma aggregata più usata (o comunque la gestione integrata avveniva tramite le Assl – aziende socio-sanitarie locali -, quindi attraverso enti dotati di propria personalità giuridica).
La 792 non a caso, nelle premesse, fa un lungo excursus degli atti che l’hanno preceduta:
– la Dgr 395/2014 – precedente alla legge regionale 11/2016 che abroga la 38/1996 ed attua il riordino dei servizi sociali sulla base della 328 -, con la quale è stato previsto un primo schema di convenzione ai sensi dell’art. 30 del Tuel (quindi, attenzione: senza la costituzione di un ente con propria personalità giuridica);
– la Dgr 660/2017 che stabilisce quali debbono essere gli ambiti distrettuali ed i sovrambiti e conferma l’indirizzo di costituzione dei consorzi intercomunali di cui all’art. 31 del Tuel;
– la Dgr 934/2017, che rafforza l’indirizzo prevedendo degli incentivi ai comuni che si aggregano attraverso i consorzi;
– la Dgr 149/2018, che favorisce l’integrazione socio-sanitaria attraverso la stipula di specifiche convenzioni tra i comuni e le Asl competenti;
– la Dgr 751/2018, che detta nuove norme sull’organizzazione ed il funzionamento degli uffici di piano.
Cosa fa, dunque, la 792 illustrata efficacemente nell’articolo de L’Inchiesta?
Due cose:
1) sulla base delle nuove norme intervenute a seguito dell’approvazione della legge regionale 11/2016, approva un nuovo schema di convenzione (art. 30 Tuel) che i comuni, pena la perdita dei contributi regionali, debbono adottare entro il I luglio 2019 per addivenire all’associazione integrale dell’esercizio delle funzioni amministrative in materia sociale entro un periodo non superiore a cinque anni (!) dalla loro entrata in vigore;
2) proroga al 30 settembre 2020 il termine previsto dalla Dgr 149/2018 (che era il 31 dicembre 2018), per la stipula della convenzione tra distretti sociosanitari e Asl per l’organizzazione e la gestione delle attività di integrazione sociosanitaria.
L’Inchiesta – riprendendo e citando la nota di trasmissione della Regione – parla di “rivoluzione nei servizi sociali”. E forse si tratta di un entusiasmo eccessivo.
Primo perché non stiamo parlando di un provvedimento così innovativo da giustificare l’enfasi, visto che nel Lazio se ne parla e dispone, con leggi e determine attuative, da più di 20 anni, mentre in altre regioni si fa da almeno 30. E tuttavia non è nemmeno da sottovalutarne la portata, visto che prima di ora si era restati fermi.
Secondo, perché, a ben vedere, questa deliberazione, pur nel meritorio tentativo di armonizzare tra loro le norme intervenute negli anni, procrastina i tempi di attuazione del “cambiamento di ordine culturale”, concedendo altri cinque anni per l’effettiva integrazione tra i comuni ed altri quasi due per fondare le basi dell’integrazione socio-sanitaria.
Terzo perché, quand’anche tra cinque anni dovessero esserci in tutta la Regione i consorzi intercomunali, pienamente integrati, sotto il profilo formale, con le Asl, il solo adempimento burocratico della norma non costituirebbe, di per sé, nessuna garanzia di qualità. Dal 1996 esiste il Consorzio Aipes di Sora e da poco dopo il Consorzio dei comuni del cassinate, e la loro gestione dei servizi sociali –a detta di chi li conosce meglio di me (ma accetto smentite) – non costituisce assolutamente un esempio da seguire, tutt’altro.
Ora, per entrare nel merito della nuova convenzione, compaiono due cose interessanti.
La prima è la previsione del “diverso peso che debbono avere i comuni nell’ambito del Comitato istituzionale (art. 5, co. 5)”. Si tratta di una soluzione mediata tra due diverse istanze: quella per cui ogni comune deve valere uno – e dunque una sorta di “distretto dei campanili” – e quella per cui ogni cittadino deve valere uno – e dunque “il distretto dei cittadini”. Nel primo caso Alatri avrebbe in assemblea lo stesso peso di Filettino, il che costituisce con tutta evidenza una illogicità e una grande ingiustizia.
La seconda è la possibilità (non l’obbligo) per il comune capofila di agire come Centrale unica di committenza (art. 7 co. 3).
Sono due aspetti – specialmente la facoltatività del secondo, ma anche la possibile fonte di confusione originata dal primo – che non paiono prefigurare un cambiamento davvero decisivo: sembra piuttosto quel tipo di compromesso che spesso le formulazioni “viscide” dei testi regionali inducono. E a volte il sospetto è che vengano scritte così a bella posta, per dar luogo a tornate successive di ulteriori mediazioni e aggiustamenti, in onore della mai debellata tentazione “gattopardesca” del cambiare tutto per non cambiare niente. Anche in questo caso si ammettono, si sollecitano e si sperano smentite.
Tarcisio Tarquini
24 gennaio 2019